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Ciao Gaber! (2)
TeatroCiao Gaber! – 2010
Omaggio a Giorgio Gaber
con Andrea Ferrari (voce recitante)
Cesare Vincenti (arrangiamenti, cori e chitarra)
Vincenzo Murè (effettistica e tastiere).
Ciao Gaber è una riproposizione di quel nuovo genere espressivo denominato “Teatro-Canzone”, legato alla teatralità, alla parola e alla musica del cantautore milanese, scritto in collaborazione con Sandro Luporini.
Gaber è stato indiscutibilmente un uomo di spettacolo, dimostrando eccezionali qualità di attore, cantante, compositore e autore. Ma al di là di questi talenti riconosciuti e che raramente si riscontrano in un unico artista, la sua grande peculiarità e l’insostituibile contributo dato alla nostra cultura è stato quello di aver dedicato e concentrato quasi esclusivamente le sue capacità nell’alternare canzoni e monologhi, parti cantate e recitate che hanno definito un genere teatrale autonomo. Per trent’anni il Teatro-Canzone di Gaber e Luporini, ha proposto al pubblico teatrale italiano, riflessioni, analisi, interrogazioni su tutto ciò che riguarda l’uomo e il suo tempo, riscontrando un consenso di critica e un successo di pubblico che sicuramente non ha eguali nella storia del teatro in Italia. In tutte le esistenze si nota una data nella quale il destino si biforca: o verso la catastrofe o verso il successo. Nel caso di Giorgio Gaber ha preso la seconda direzione. Ma quella data fatidica ha un testimone d’eccezione: Giulio Rapetti, il futuro Mogol della canzone italiana. Semmai Gaber fosse inciampato nel destino, disse Rapetti, fu in una sera d’autunno del 1958, al Santa Tecla, un locale notturno di Milano, frequentato assiduamente da Gaber, dove Mogol, all’epoca 24enne, lavorava per la casa discografica Ricordi.
Giorgio Gaberscik, classe 1939, cognome di origine triestina, si diploma ragioniere, frequenta la facoltà di Economia e Commercio alla Bocconi, lavora in Banca; ama il jazz, suona la chitarra, conosce Celentano, Jannacci, Tenco, Paoli, Lauzi, Gianco. Entra in compagnie d’avanspettacolo al teatro Smeraldo di Milano e si esibisce a fianco di attori quali Ugo Tognazzi, Lauretta Masiero, Gianrico Tedeschi, Wanda Osiris, Lelio Luttazzi. Arriva la televisione che gli dà una popolarità improvvisa ma lui subito la lascia per intraprendere la strada del Teatro. Saranno rare le sue future apparizioni in TV. L’ultima su RaiUno, in uno show a fianco dell’amico Celentano. Anche il cinema fa capolino nella sua carriera: Il Minestrone con Roberto Benigni e Rossini! Rossini! di Mario Monicelli.
Ciao Gaber è uno spettacolo che ripercorre il viaggio cronologico della carriera dell’artista milanese non solo nelle sue interpretazioni canore e musicali ma anche teatrali.
In questa edizione, è riproposto il repertorio più famoso, non solo nei brani, come “Io non mi sento italiano”, “Destra-Sinistra”, “Barbera e Champagne”, “Torpedo blu”, “Quando sarò capace di amare”, “Com’è bella la città”, “Goganga”, “La libertà”, “Lo shampoo”, “Il conformista”, “Il dilemma” ma anche i monologhi teatrali a sfondo sociale e ironico come “Qualcuno era comunista”, “L’America”, “Sogno in due tempi” e tanto altro. Uno spettacolo che sfiora le due ore di messinscena, senza mai calare di tono, in un crescendo emozionale che ripercorre il viaggio cronologico della carriera dell’autore-interprete.
Le due sigle di apertura e di chiusura della serata sono affidate proprio alla voce originale di Giorgio Gaber.
Interpreti sono l’attore Andrea Ferrari, e i maestri Cesare Vincenti (arrangiamenti, cori e chitarra), e Vincenzo Murè (tastiere ed effettistica).
La durata dello spettacolo è di un’ora e quanrantacinque minuti senza intervallo.
Grazie Signor G.
Ciao Gaber!
TeatroCiao Gaber! – 2013
Omaggio a Giorgio Gaber
con Andrea Ferrari (voce recitante)
Cesare Vincenti (arrangiamenti, cori e chitarra)
Vincenzo Murè (effettistica e tastiere).
Ciao Gaber è una riproposizione di quel nuovo genere espressivo denominato “Teatro-Canzone”, legato alla teatralità, alla parola e alla musica del cantautore milanese, scritto in collaborazione con Sandro Luporini.
Gaber è stato indiscutibilmente un uomo di spettacolo, dimostrando eccezionali qualità di attore, cantante, compositore e autore. Ma al di là di questi talenti riconosciuti e che raramente si riscontrano in un unico artista, la sua grande peculiarità e l’insostituibile contributo dato alla nostra cultura è stato quello di aver dedicato e concentrato quasi esclusivamente le sue capacità nell’alternare canzoni e monologhi, parti cantate e recitate che hanno definito un genere teatrale autonomo. Per trent’anni il Teatro-Canzone di Gaber e Luporini, ha proposto al pubblico teatrale italiano, riflessioni, analisi, interrogazioni su tutto ciò che riguarda l’uomo e il suo tempo, riscontrando un consenso di critica e un successo di pubblico che sicuramente non ha eguali nella storia del teatro in Italia. In tutte le esistenze si nota una data nella quale il destino si biforca: o verso la catastrofe o verso il successo. Nel caso di Giorgio Gaber ha preso la seconda direzione. Ma quella data fatidica ha un testimone d’eccezione: Giulio Rapetti, il futuro Mogol della canzone italiana. Semmai Gaber fosse inciampato nel destino, disse Rapetti, fu in una sera d’autunno del 1958, al Santa Tecla, un locale notturno di Milano, frequentato assiduamente da Gaber, dove Mogol, all’epoca 24enne, lavorava per la casa discografica Ricordi.
Giorgio Gaberscik, classe 1939, cognome di origine triestina, si diploma ragioniere, frequenta la facoltà di Economia e Commercio alla Bocconi, lavora in Banca; ama il jazz, suona la chitarra, conosce Celentano, Jannacci, Tenco, Paoli, Lauzi, Gianco. Entra in compagnie d’avanspettacolo al teatro Smeraldo di Milano e si esibisce a fianco di attori quali Ugo Tognazzi, Lauretta Masiero, Gianrico Tedeschi, Wanda Osiris, Lelio Luttazzi. Arriva la televisione che gli dà una popolarità improvvisa ma lui subito la lascia per intraprendere la strada del Teatro. Saranno rare le sue future apparizioni in TV. L’ultima su RaiUno, in uno show a fianco dell’amico Celentano. Anche il cinema fa capolino nella sua carriera: Il Minestrone con Roberto Benigni e Rossini! Rossini! di Mario Monicelli.
Ciao Gaber è uno spettacolo che ripercorre il viaggio cronologico della carriera dell’artista milanese non solo nelle sue interpretazioni canore e musicali ma anche teatrali.
In questa edizione, è riproposto il repertorio più famoso, non solo nei brani, come “Io non mi sento italiano”, “Destra-Sinistra”, “Barbera e Champagne”, “Torpedo blu”, “Quando sarò capace di amare”, “Com’è bella la città”, “Goganga”, “La libertà”, “Lo shampoo”, “Il conformista”, “Il dilemma” ma anche i monologhi teatrali a sfondo sociale e ironico come “Qualcuno era comunista”, “L’America”, “Sogno in due tempi” e tanto altro. Uno spettacolo che sfiora le due ore di messinscena, senza mai calare di tono, in un crescendo emozionale che ripercorre il viaggio cronologico della carriera dell’autore-interprete.
Le due sigle di apertura e di chiusura della serata sono affidate proprio alla voce originale di Giorgio Gaber.
Interpreti sono l’attore Andrea Ferrari, e i maestri Cesare Vincenti (arrangiamenti, cori e chitarra), e Vincenzo Murè (tastiere ed effettistica).
La durata dello spettacolo è di un’ora e quanrantacinque minuti senza intervallo.
Grazie Signor G.
TAQ – Turbolenze ad Alta Quota
TeatroTAQ – Turbolenze ad Alta Quota – 2013
di Autori Vari.
Indagine teatrale sulle violenze alle donne
Il titolo di questo spettacolo, promosso dall’Associazione Anfitrione con il Patrocinio dell’Assessorato alle Pari Opportunità del Comune di Modena, è un acronimo che richiama l’indagine diagnostica utilizzata in medicina, cioè la TAC al fine di rilevare con gli strumenti dei testi teatrali, qual è lo stato di salute del rapporto uomo-donna. Questo è il punto di partenza: tenendo ben presente che non è solo rapporto fisico: e la TAC fa ben poco nel diagnosticare i sentimenti: un’indagine strumentale ancora non c’è che entri nella nostra anima: e per fortuna, mi viene da dire.
Nello stesso tempo ho usato un’allegoria rubata all’aeronautica: le parole Turbolenze, e Alta Quota.
Diverse possono essere le chiavi di lettura: certamente Turbolenza è sinonimo di Violenza, mentre Alta Quota può avere semantiche differenti:
L’Alta Quota è un mondo che non appartiene all’uomo: abbiamo tentato di conquistarlo, da Ícaro, passando dai fratelli Montgolfier, Wright, Zeppelin fino alle più moderne tecnologie, con non pochi incidenti, che sono ancora in corso e che continueranno a verificarsi: ma l’Alta Quota non è insita dell’uomo, pertanto, questi dev’essere consapevole dei rischi che corre. È un mondo che abbiamo voluto conquistare per la tecnologia, lo sviluppo, il benessere.
I due mondi contrapposti sono proprio l’uomo e la donna. Uno va alla conquista dell’altro.
Ed è di questi due mondi che la Natura si serve per mandare avanti la specie: e non guarda in faccia a nessuno. La Natura non ha sentimento: ha una sua intelligenza che non corrisponde a quella umana. Utilizza gli strumenti della chimica, dell’ormone, del sesso purché il genere umano proceda: e non gliene importa niente se poi il risultato sono bambini non sani, morti o sfocino in violenze efferate. A Lei questo non interessa più: a Lei interessa che uomini e donne s’incontrino per procreare e l’ha fatto offrendo loro uno strumento di piacere, difficile da ammaestrare e controllare.
Ed è su questi due mondi differenti che sono sorte tutte le discipline, le scienze che noi conosciamo, che hanno cercato e cercano di dare risposte.
E dell’Alta Quota se è vero che abbiamo voluto conquistarla, è anche vero che, proprio perché non ci appartiene, ce ne freghiamo:
È qualcosa che non mi riguarda, è lontana: leggo i giornali, guardo la TV, assisto ai drammi, ma una volta chiusa la pagina o spento l’apparecchio, quel dramma non è più mio. Non è mai stato mio. Non mi capiterà mai una cosa del genere: povera gente.
Poi, a volte, gli altri siamo noi: ci siamo noi su quelle pagine: ci siamo noi davanti a quelle telecamere: tutti ci leggono, tutti ci guardano, tutti chiudono la pagina, tutti pigiano OFF.
Anche il Teatro ha dato il suo contributo: fin dalla sua nascita, in epoca classica, descrivendo fatti efferati e personalità abominevoli: mamme che uccidono figli, figli che uccidono genitori, genitori che si cibano di carne dei figli. Questo a testimonianza che, dacché esiste l’uomo, come genere, esistono le violenze e le sopraffazioni. Non c’è nulla di nuovo se non la forza dei mezzi di comunicazione che amplificano e a volte danneggiano gli eventi.
La chiave di lettura di questo spettacolo non è drammatica né comica: semmai umoristica, cioè il sapere leggere oltre al dramma per scorgere uno spiraglio di speranza, semmai ci fosse.
Credo che non debba sempre essere la psichiatria, la psicanalisi, la psicologia, la filosofia, a risolvere i problemi dell’uomo. Si è perso, un po’, quel sano istinto di auto conservazione. Forse la colpa è da ricercare in quella sala parto che ci ha visto nascere: quando si esce dal ventre della propria madre, davanti a quella vagina c’è un gruppo di persone pronte ad accoglierti e aiutarti, come se avessero bisogno di nuovi alleati: ti tirano fuori con la forza! Come se: più siamo più c’è la possibilità che la sfiga non veda me ma veda te! Ma la sfiga ci vede benissimo!
Eppure, là, in quella sala parto, che non ho mai capito perché si chiama sala parto se ci sono solo dei nuovi arrivi, quella vagina è sventrata.
E allora utilizziamo le parole branco, mostro per identificare la violenza: ma il branco e il mostro non appartengono al genero umano: uno è animale, l’altro è fiabesco!
Forse, è solo nella Natura e nelle Fiabe che l’uomo riesce ancora a salvare se stesso. C’era una volta…
Andrea Ferrar
ZENO: l’incoscienza di amare
TeatroZENO: l’incoscienza di amare – 2014
di Andrea Ferrari, da un’idea Donata Ghermandi.
Liberamente tratta da La coscienza di Zeno di Italo Svevo
Tratta dal romanzo “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo, l’idea è nata dalla professoressa Donata Ghermandi, insegnante d’italiano del liceo Classico L. A. Muratori di Modena che l’ha sottoposta all’attore e regista Andrea Ferrari che ne ha elaborato una nuova versione teatrale. Tema centrale dell’opera è la malattia reale o immaginaria del protagonista: Zeno Cosini. Il suo rapporto con il padre, con il fumo e, soprattutto, con la famiglia Malfenti. L’inettitudine del personaggio, la volontà debole, l’amore per se stesso che da sempre domina e soffoca l’amore per gli altri: Zeno è un uomo che in fondo pensa sempre e soprattutto a sé e al proprio benessere, che non ama mai davvero. Racconta della sua sorprendente felicità coniugale, del binomio amore-salute che la moglie rappresenta per lui: Augusta è la “salute personificata” pur avendo corteggiato dapprima le altre due sorelle di lei: Ada e Angela. In quanto alla quarta sorella, Anna, è stata esclusa solo perché minorenne. Dopo tanto zoppicare nel corteggiare Ada, Albera e Augusta, arriverà ad accettare l’amore di quest’ultima e solo alla fine capirà che è stato un uomo fortunato pur sforzandosi e senza farle mancare un tradimento coniugale. Questo sforzo altro non era che la sua malattia. Il testo è incentrato sulle confessioni che Zeno fa al suo psicanalista, il Dottor S. (chiaro richiamo al dottor Sigmund Freud) che per “vendetta” vuole pubblicarle perché Zeno si è sottratto alle sedute. In questa elaborazione di Ferrari, c’è il gioco del doppio: durante la narrazione del protagonista oramai canuto, si rivive in scena la storia narrata.
Sarto per signora
TeatroSarto per signora – 2014
di Georges Feydeau
Sarto per signora è del 1887 e sorprende scoprire che, Georges Feydeau, lo scrisse a soli 24 anni: ha rappresentato il suo esordio come drammaturgo. Feydeau era figlio di un’agiata e colta famiglia parigina: il padre era amico di Flaubert, la madre era una bellissima donna polacca che, si dice, fosse stata amante di Napoleone III. Il giovane Feydeau si impiegò come segretario di un teatro, dove ebbe modo di apprendere la scrittura teatrale e, pertanto, debuttare giovanissimo. In Sarto per signora c’è già tutto l’estro e lo stile di Feydeau: la trama è basata sul classico triangolo adulterino: lui, lei, l’altro o l’altra, ma soprattutto, quello che non manca mai, è il concentramento di tutti i personaggi in un solo luogo, dove si incontrano tutti quelli che non si sarebbero mai dovuti incontrare: mariti, mogli, amanti, amanti dei mariti, amanti delle mogli. Questo è il segreto e la forza di Feydeau. La sua produzione di opere, tutte da ridere, è uno specchio deformato del suo tempo: la Bella Epoque, di quel periodo privo di preoccupazioni, e che sfociò, poi, tragicamente, nella Grande Guerra. Feydeau era un formidabile battutista, come devono essere i veri commediografi. Al centro di molte opere di Feydeau c’è la coppia coniugale, in cui si consumano tradimenti, ipocrisie e malintesi. Anche in Sarto per signora, il bugiardo Dott. Moulineaux prima si giustifica con delle scuse con la moglie Yvonne per aver passato la notte fuori casa, poi cerca di tradirla con Susanna, la moglie del generale Aubin. Le dà appuntamento in un dismesso atelier sartoriale che gli è stato affidato da un amico, Bassinet, per le sue scappatelle e, a causa di una porta che non si chiude, i due amanti vengono scoperti. A Moulineaux non rimane altro che fingersi sarto con conseguente inizio di una serie di episodi paradossali che vengono portati avanti fino alle estreme conseguenze. L’irresistibile comicità di Feydeau nasce dal dialogo serrato e dalle battute brevi e pungenti dei personaggi, ma anche dalle situazioni irreali che derivano da equivoci e malintesi.